L’ansia è un’emozione di base che si attiva in risposta alla percezione di un pericolo imminente.
È, quindi, uno stato emotivo che anticipa un pericolo futuro e risulta caratterizzato da apprensione e tensione interna.
Il panico, invece, è uno stato emotivo volto alla gestione di una situazione catastrofica in atto. Quest’ultimo è caratterizzato da una sensazione di paura estrema e di morte e/o impazzimento imminente.
L’attacco di panico rientra all’interno dei disturbi d’ansia, che rappresentano la più frequente psicopatologia nella popolazione mondiale. Un attacco di panico è un episodio caratterizzato dall’improvvisa comparsa di un periodo distinto e breve di fortissimo disagio, ansia, paura o terrore, accompagnato da sintomi fisici e/o emotivi.
Generalmente la durata dell’attacco di panico è breve, in quanto si risolve in dieci minuti, ma coloro che lo sperimentano lo descrivono come un’esperienza terribile.
Le cause alla base di un attacco di panico non sempre sono facilmente identificabili e, in molti casi, non sono del tutto note. Il disturbo di solito insorge nella tarda adolescenza o nella prima età adulta. Indubbiamente, vi è il coinvolgimento sia di fattori psicologici che di fattori fisiologici.
Il disturbo di panico origina da una disfunzione sia biologica che psicologica, e il trattamento che si è dimostrato maggiormente efficace prevede l’associazione combinata di psicoterapia e terapia farmacologica. Nella terapia si utilizzano strategie verbali volte a modificare i pensieri catastrofici automatici.
Questo fa sì che, col tempo, la persona impari a non aver paura delle sensazioni fisiche di ansia. Non avendone paura, imparando a conviverci semplicemente aspettando che passino, si evita l’escalation di ansia che porta al panico.
Alle strategie verbali si associano tecniche volte a modificare i comportamenti problematici che mantengono il disturbo. In primis, occorre contrastare gradualmente la tendenza ad evitare le situazioni temute (cioè quelle da cui non c’è immediata via di fuga). Infine, possono essere utili tecniche di rilassamento e soprattutto strategie che aumentino la capacità del soggetto di accettare le emozioni negative, in particolare attraverso la mindfulness.
Le fobie specifiche sono paure intense verso uno stimolo specifico (un oggetto, una situazione, un animale, un luogo, ecc.) che sono sproporzionate, persistenti e spesso irrazionali.
Chi soffre di una fobia specifica tende a evitare tutte le situazioni in cui è presente lo stimolo fobico (cioè quell’oggetto, quella situazione o quell’animale che induce paura) oppure vive la situazione di contatto reale o immaginato con estremo disagio e terrore.
Esistono diversi stimoli fobici che danno luogo a fobie ricorrenti, ad esempio la paura delle altezze, la fobia per il sangue/le siringhe, la fobia dei ragni, solo per citarne alcune. In alcuni individui invece si possono sviluppare fobie specifiche in risposta a stimoli particolari e non così comuni (es. la fobia di certe forme o di certi colori).
Le fobie specifiche possono avere ripercussioni negative in chi ne soffre limitando la sua libertà di azione.
La terapia cognitivo-comportamentale aiuta il paziente a rivalutare la pericolosità degli stimoli temuti e a tollerare il disagio provato.
Il disturbo ossessivo-compulsivo è caratterizzato dalla presenza sia dell’ossessione che dei rituali compulsivi, solitamente insieme.
Le ossessioni hanno quattro caratteristiche essenziali: sono pensieri ricorrenti e persistenti e causano grande ansia; non sono semplicemente preoccupazioni eccessive su questioni della vita reale; gli individui che ne sono oppressi tentano di ignorarli, sopprimerli, o neutralizzarli con alcuni altri pensieri o azioni; le persone che ne sono affette riconoscono che questi pensieri sono prodotti della loro mente.
Gli esempi di ossessioni includono i pensieri e le immagini non volute di far male a chi si ama, dubbi persistenti sull’aver chiuso la porta, o staccato gli apparecchi elettronici, pensieri intrusivi di essere contagiati, e pensieri sessualmente e moralmente ripugnanti.
Le compulsioni sono comportamenti ripetitivi (es. lavarsi le mani ripetutamente, ordinare, o controllare) o atti mentali (es. pregare ripetutamente, contare, o pensare cose buone per rimuovere o rimpiazzare i cattivi pensieri) che influiscono sulla persona, la quale si sente obbligata a ricorrervi in reazione a un’ossessione, spesso seguendo regole severe (es. controllare che l’interruttore è abbassato sollevandolo e abbassandolo per 10 volte). Le compulsioni hanno lo scopo di prevenire o ridurre l’angoscia, o prevenire degli eventi terribili. Ad ogni modo, sono eccessive e non connesse realisticamente a ciò che intendono prevenire.
La psicoterapia cognitivo-comportamentale costituisce il trattamento psicoterapeutico di elezione per bambini, adolescenti e adulti con disturbo ossessivo. La psicoterapia comportamentale, basata sui principi dell’apprendimento, mira ad insegnare alle persone a modificare i propri pensieri e sentimenti a partire dal cambiamento dei propri comportamenti.
La depressione è uno dei disturbi psichici più comuni e invalidanti e riguarda il tono dell’umore, funzione psichica importante per l’adattamento. L’umore è generalmente flessibile: quando gli individui vivono eventi o situazioni piacevoli, esso flette verso l’alto, mentre flette verso il basso in situazioni negative e spiacevoli.
Chi soffre di depressione non mostra questa flessibilità, ma il suo umore è costantemente flesso verso il basso, indipendentemente dalle situazioni esterne. Non a caso, dunque, chi presenta i sintomi della depressione mostra frequenti e intensi stati di insoddisfazione e tristezza, tendendo a non provare piacere nelle comuni attività quotidiane.
Le persone che soffrono di depressione vivono in una condizione di costante malumore e con pensieri negativi e pessimisti circa sé stessi, gli altri e il proprio futuro.
I comportamenti che contraddistinguono la persona depressa sono l’evitamento delle persone e l’isolamento sociale, i comportamenti passivi, frequenti lamentele, la riduzione dell’attività sessuale e i tentativi di suicidio.
Nel trattamento della depressione si ricorre alla terapia con antidepressivi e alla psicoterapia, entrambe di fondamentale importanza. L’umore basso influenza i processi di pensiero portando il soggetto a vedere tutto nero, come se guardasse se stesso, gli altri e il futuro attraverso lenti scure.
Da un lato si cerca quindi di aiutare il paziente a identificare e modificare i pensieri automatici negativi che possono sostenere la depressione. La terapia aiuta la persona a sviluppare una modalità di pensiero più equilibrata e razionale. Di conseguenza le emozioni negative si ridimensionano e l’umore migliora.
Numerosi studi hanno evidenziato come i pazienti depressi tendano a passare molto tempo a rimuginare (o meglio “ruminare”). I propri pensieri sono infatti troppo spesso orientati sul passato, sui fallimenti o insuccessi, sulle perdite, sui lutti, sugli errori.
Pensano e ripensano a quanto accaduto colpevolizzandosi, chiedendosi il perché, cercando di capirne le motivazioni o continuando a ricercare soluzioni. L’attività di ruminazione, tuttavia, tende a mantenere il pensiero focalizzato sugli eventi dolorosi, aumentando la sofferenza. Non consente di spostare l’attenzione sul presente e sul futuro, accettando ciò che può essere accaduto in passato.
In terapia cognitivo-comportamentale si interviene quindi sulle credenze riguardo al processo di ruminazione stessa, per cercare poi di trasmettere strategie per ridurre al minimo questa attività mentale disfunzionale.
Il burnout è un vero e proprio esaurimento emotivo di cui è vittima il lavoratore.
Di fatto è una forma cronica di stress lavoro correlato che si presenta con un crescente senso di distacco dalle attività nelle quali il soggetto è coinvolto.
Il lavoro perde di significato e le conseguenze psico-fisiche possono essere drammatiche, con effetti decisivi anche sulla produttività.
Il burnout è caratterizzato da tre dimensioni principali che coinvolgono direttamente il lavoratore:
Nello specifico, i lavoratori che vivono una esperienza di burnout o stress da lavoro correlato, sono soggetti a:
Il trattamento psicologico di questo disturbo favorisce innanzitutto una maggiore consapevolezza del problema, quindi il soggetto che ne soffre deve riconoscere i fattori responsabili dello sviluppo e del mantenimento dell’esaurimento psicofisico.
Successivamente, le strategie per affrontare il burnout prevedono la modifica del comportamento e degli atteggiamenti in coerenza a quanto acquisito. Sul luogo di lavoro, il burnout può essere affrontato chiedendo sostegno al proprio superiore, al reparto risorse umane oppure all’ufficio competente dell’azienda. Al contempo, è possibile accrescere il supporto sociale, non solo di colleghi e amici, ma anche dei familiari, cercando di bilanciare al meglio il rapporto lavoro-vita privata.
Gli interventi psicoterapeutici, come quello cognitivo-comportamentale, contribuiscono a migliorare la prognosi del burnout, tenendo conto della complessità della patologia e della specifica individualità del soggetto.
Il lutto rappresenta una risposta dolorosa ma naturale e fisiologica conseguente alla perdita di una persona cara e che può compromettere significativamente la funzionalità nella vita quotidiana della persona.
La morte di un caro, in quanto evento drammatico, spesso implica una risposta complessa ma appunto fisiologica, da non considerare di per sé patologica.
A seconda del legame con la persona defunta, della personalità della persona in lutto e del supporto sociale, le reazioni acute fisiologiche al lutto possono essere differenti, e implicare anche ad esempio inappetenza, insonnia o ipersonnia, difficoltà di concentrazione nella quotidianità.
Tali risposte generalmente si modificano nel tempo, riducendosi, con i processi di accettazione della perdita del proprio caro. Nel tempo, a seguito della morte, la persona in lutto cerca di ri-organizzare i significati di sé e della propria vita relazionale-emotiva, rielaborando l’evento della perdita.
Il disturbo da lutto persistente e complicato implica invece reazioni acute e intense di dolore, pensieri ed emozioni negative oltre l’anno della morte della persona cara e che compromettono significativamente il funzionamento nella quotidianità e creano disagio significativo nella persona.
Un trattamento psicoterapico può aiutare i pazienti a comprendere e ad accettare la perdita, a gestire le emozioni, a rafforzare le relazioni sociali e a ri-organizzare semanticamente la narrativa della perdita e di sé stessi.
Possiamo affermare che la genitorialità si modifichi costantemente durante l’intero arco della vita perché è inserita all’interno di un percorso evolutivo fisiologico ed è influenzata da fattori personali, familiari e sociali che variano nel tempo.
Durante questo complesso viaggio ci si può trovare ad attraversare momenti in cui il percorso appare troppo ripido e faticoso e ci si sente stanchi e disorientati. La necessità di un sostegno genitoriale appare più forte in alcuni momenti cruciali della vita dei figli, tra cui preadolescenza ed adolescenza, o in coincidenza di specifici eventi che coinvolgono l’intero nucleo familiare, quali ad esempio un lutto o una separazione.
I percorsi psicologici di sostegno alla genitorialità hanno, pertanto, l’obiettivo di supportare i genitori nel loro ruolo, di aumentare la consapevolezza dell’importanza di tale compito e di ampliare e rafforzare le proprie competenze educative nell’ottica di una maggiore comprensione del figlio (i suoi bisogni, le sue paure, il suo modo di essere e di comunicare), di se stessi e della relazione con lui. Successivamente ad una riflessione sugli stili educativi e comunicativi messi in atto nel rapporto genitore/figlio sarà, infatti, possibile anche ripensare ad altre modalità di comportamento più efficaci. Il percorso di sostegno alla genitorialità può essere un cammino utile a qualsiasi genitore per migliorare la relazione con i figli, le dinamiche familiari e la crescita di ogni membro della famiglia. Attraverso questo spazio, infatti, è possibile trovare risposte a dubbi ed interrogativi sulle scelte educative e sul riconoscimento precoce dei segnali di disagio dei propri figli.
Nella vita di coppia è naturale incorrere in conflitti, tensioni e momenti di allontanamento, ma quando la crisi diviene tanto profonda da mettere in discussione il legame, la coppia può rendersi conto della necessità di un intervento esterno per superare la crisi.
Durante una seduta di psicoterapia di coppia, il terapeuta lascia la possibilità ai due membri della coppia di condividere e confrontarsi riguardo ad aspetti della vita insieme, fantasie, bisogni, emozioni, esigenze nuove o vecchie, nel rispetto dei tempi, spazi e individualità, propri e altrui.
Analizzando la storia della coppia e della relazione, lo specialista può proporre idee e attività personalizzate sui bisogni specifici della coppia.
L’obiettivo è costruire una nuova storia con la coppia, ricercando significati diversi negli eventi e nei comportamenti reciproci e conciliando l’individualità di ciascun partner con l’appartenenza alla stessa dimensione di coppia. Inoltre, l’obiettivo è sia ristabilire equilibrio e serenità nella coppia sia portare la coppia a fare le proprie scelte di vita in modo consapevole.
Il ruolo dello psicologo è quello di un arbitro neutrale che, bilanciando gli interventi dei due pazienti, permette al singolo individuo della coppia di ampliare le proprie vedute e soprattutto accogliere quelle del partner, permettendo un confronto efficace e rafforzando la reciprocità di coppia.
La psicologia non si occupa soltanto dei disturbi prettamente psichici come ansia, attacchi di panico, fobie e altro ancora. Ogni disagio che vive la persona ha una ripercussione psicologica sia che parta dalla psiche che dal corpo.
Quanto più è severo il disagio, o si ripropone nel tempo, tanto più comporterà delle ripercussioni emotive e psichiche importanti nel soggetto.
Purtroppo, le persone vicine in molti casi, dopo l’ascolto iniziale, tendono a non voler sentire il proprio caro che si lamenta per il disagio che sta vivendo.
Spesso, questa reazione di amici o famigliari è autoprotettiva, è una difesa dal dolore.
Il risultato però è che la persona ammalata comprende di non poter parlare dei suoi problemi e di doversi tenere le frustrazioni, il dolore, l’impotenza, i dubbi per sé finendo con il deprimersi maggiormente.
Il supporto psicologico è quindi fondamentale per aiutare la persona ammalata a poter: